L’estate, per i bimbi, dura tre mesi. Andavamo a Nola per settimane, ne eravamo persino felici. Martina veniva a stare ogni giorno da noi, arrivava al mattino. Giocavamo a nascondino, ci facevamo rincorrere dal cane, poi saltavamo sulla panchina, per non farci raggiungere. Andavamo in bicicletta, ci lanciavamo l’acqua sul terrazzo. Alla sera – «zia, altri cinque minuti» – tiravamo fuori i puzzle e facevamo a gara a chi finiva prima.
Era un rito.
Bambi, Pocahontas, il cane e il gatto che ballavano davanti a un jukebox. Ce ne stavamo lì, seduti attorno al tavolo di plastica in mezzo alle scale, dopo aver fatto la doccia, intenti a cercare la tessera perfetta. Io, mio fratello e mia cugina, 24 anni in tre.
«Zia, altri cinque minuti». Martina doveva andare a casa, ma prima voleva finire di ricomporre quell’immagine. Ogni sera, a rotazione, una diversa. Il primo che finisce, domani sceglie il puzzle.
Dovevi incastrare i pezzi, poi – dal nulla- usciva un disegno.
Mi chiedevano, un tempo, «cosa vuoi fare da grande?» e io rispondevo «Lilli Gruber». «Vuoi dire la giornalista, forse…», «No, Lilli Gruber».