Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze

Quella del 2018 è stata un’estate memorabile. Ho visto posti nuovi, passato giornate incredibili, fatto attività semplici e quotidiane, ma in modo del tutto diverso; mi sono rilassata, ho detestato Roma e il caldo di Roma, ma sono riuscita a esserne vittima per un tempo limitato. Per il mio compleanno sono stata a Siviglia; la settimana di Ferragosto siamo andati al Sud.

Avevamo studiato un piano in cui tutto sarebbe potuto andare storto (tre città, cinque giorni, due treni, troppi autobus, la Salerno – Reggio Calabria): e invece, come per magia, filava tutto liscio. Il punto di massimo disagio è stato trascinare le valigie sui gradoni dei Sassi di Matera, ma in fondo è giusto così, mica ho cercato di farmi venire una parvenza di bicipiti andando in palestra tutto l’anno per nulla.

Mi sono convinta, a un certo punto, che il Meridione sia il posto perfetto per caricare le pile scariche. Ci sono problemi, e io non voglio non vederli. Ma ho sempre l’impressione che stia cambiando qualcosa; che è come se ci fosse un rinascimento (che alla mia città manca). Che è come se pian piano si stia recuperando una visione: spero non sia dovuto all’attesa del reddito di cittadinanza.

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Cosa volevo fare da grande

Una volta mia madre mi mandò a consegnare un paio di scarpe a un calzolaio. Eravamo a Nola, durante una di quelle estate torride in cui potevo annoiarmi, fissare il vuoto e riflettere sui drammi della vita senza sentirmi troppo in colpa, come la gioventù borghese ottocentesca debosciata. Ieri sera, dopo aver rimandato per settimane (“sono uscita tardi”, “devo andare in palestra”, “vorrei passare al supermercato”) sono entrata nel negozio del calzolaio sotto casa per fargli riparare una borsa di pelle che ho comprato a Siviglia.

C’erano tre signore in fila, ad aspettare chiacchierando sulle sedie; scarpe dappertutto. Due bottiglie di acqua lete. Quadri orientaleggianti al muro, un CD di Cremonini e una macchina per cucire nera. Come quella che ha mia nonna, solo più grande. C’era caldo, un vecchio ventilatore sovrastava le chiacchiere e “Marmellata #25”.

Il calzolaio mi ha chiesto se volevo aspettare. “Dottoré, faccio tutto in due minuti”; non voleva soldi, quindi ho comprato una borsa che fa lui, nel tempo libero. Le teneva legate, “perché a Natale una signora se ne è ‘nguattate due senza pagare”. Ho dato una carezza al cane di una delle tre clienti in attesa. C’era pace, nel rumore ritmato, nella puzza di lucido per le scarpe, in quella valanga disordinata di sandali e stivali di tutte le taglie.

In una torrida estate di forse 13, 14 anni fa, ho pensato che avrei voluto fare un lavoro manuale, da grande. Avevo la testa colma di paranoie, di parole che volevano uscire e che rovesciavo su quadernini riempiti fitti fitti, senza mai lasciare una riga. Scrivevo a matita, per poter cancellare: un paio di giorni fa riordinavo i cassetti della mia camera di adolescente e ho scoperto che si è scolorito quasi tutto. Vorrei ribattere qualcosa al computer, per ricordo; poi mi leggo, mi vedo così diversa e quasi mi vergogno.

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