Un prato pieno di lucciole

Mio nonno, quando era ragazzo, andava a Pasquetta alle fontanelle di Avella. Partiva al mattino con i suoi amici; uno di loro era figlio di un capo treno. “Quando ha il turno il tuo papà?” “Alle cinque e cinquantasette“. E si alzavano tutti, alle cinque e cinquantasette, per andare a Napoli senza pagare il biglietto. Il primo anno da neopatentati si allungarono fino ad Alberobello; due ore di gita, otto di macchina. Era il 1956.

I miei genitori, da fidanzati, andavano d’estate alle fontanelle di Avella; c’erano tante, tantissime lucciole. Una sera, mentre tornavano di lì, trovarono un cane, color miele; andava avanti e indietro, sul ciglio della strada. Lo caricarono sui sedili dietro, mia madre – terrorizzata – temeva la mordesse. Bill è stato coi miei nonni per quasi vent’anni. Era enorme, dolce, color miele. Mia madre ha paura di tutti i cani, ma di lui no. A Capodanno lo chiudevano in garage perché si spaventava per i fuochi d’artificio. Non avrebbe morso nemmeno un ladro. Ho una foto con lui, nel recinto dei conigli.

Una volta, da bambina, ho visto un prato pieno di lucciole. Eravamo nelle Marche, in vacanza. Vivevamo in una villa in mezzo ai campi di girasoli. Apparteneva a una signora, tutta strana, con sette cani e due dipendenti – Augusto e Archimede. Riparavano le biciclette. Avevano, in cantina, decine di mobili pieni di bottoni. C’era una tenda a separare i nostri appartamenti. La statua di una madonna scolorita in giardino. L’aria era calda, l’atmosfera indolente.

Io e mio fratello giocavamo con due bambini, nella villa più avanti. Un giorno la loro mamma ci ha fatto i pop corn dolci. E io – che li avevo sempre mangiati salati – li sgranocchiavo, un po’ perplessa; era un posto strano, un po’ fuori dal mondo.

Ma io le lucciole le ho viste solo lì; e poco fa, tra le immagini di Google. Non credevo che un insetto tanto brutto potesse dar vita a quella scena che mi aveva tolto il fiato.