As if on an ocean

Negli ultimi giorni sono andata a camminare tre volte al fiume e siccome sono nostalgica mi sono messa a pensare a tutti i fiumi lungo cui ho camminato, e a quelli che si sono visti passare davanti momenti chiave della mia vita.

Quando Francesco mi ha chiesto di sposarci eravamo sul Guadalquivir; quando ho deciso di tornare in Italia e non cominciare un master in Germania ero sulla Sprea, proprio dietro la Museumsinsel; ho capito di dover lasciare il mio vecchio lavoro mentre guardavo il Tevere da un ponte. La notte prima di ogni esame importante finisco sempre in orridi alberghi con vista fiume e zanzare annesse.

L’acqua dei fiumi corre veloce, l’acqua dei laghi rimane lì stagnante: ma rassicura, è come se ti abbracciasse. Nel paese in cui sono nata c’è un lago, nelle città in  cui sono cresciuta sempre un fiume. A Berlino avevo entrambi e potevo scegliere se guardarmi scorrere o crogiolarmi nell’immobilità.

I fiumi mi piacciono perché sanno essere terribilmente impetuosi e perfettamente calmi; mi trasmettono un senso di potenza, di appartenenza al mondo, mentre mi fanno scorrere nella mente decine di reminiscenze da scuola elementare – sui ghiacciai che li alimentano, sulle nuvole da cui cade la pioggia che va a riempirli, sul fatto che sfociano nel mare, che possono ricongiungersi all’oceano.

I laghi stanno lì, immobili, e quasi mi fanno rabbia. Il mio cervello rifiuta a tratti di includerli nel ciclo dell’acqua. Al mio lago, però, voglio bene, perché mi ha vista diventare grande. Quando ero piccola ci andavo a camminare e cerco ancora di andarci ogni volta che posso. A scuola ci portavano a vedere l’emissario. Ho cercato tante volte, con persone diverse, di arrivare al tempio di Diana, nascosto ogni volta da qualcosa di diverso. C’erano i matti che andavano a farci le messe nere e a volte ritrovavi questi altari improvvisati,  quaderni colmi di frasi improbabili, residui di piccoli fuochi accesi in cerchio. Ho una cartella piena di spunti per articoli che non ho mai scritto, ho questa traccia di inchiesta sul “mio” lago a cui ho messo mano almeno sette volte.

Ne ho parlato per ore a mio padre in quelle mattine oziose d’estate, in cui andavamo a correre lungo la riva e lui si lamentava perché lo rallentavo e gli altri runner avrebbe pensato che i suoi tempi erano peggiorati. Poi salivamo insieme per una strada tra le vigne, da cui il lago sembrava un mare,  fino a una villa signorile, quasi distrutta, che ricorda una casa della nobiltà siciliana decaduta, un po’ Gattopardo, un po’ I viceré.

Mi piace guardare il mio lago, mi piace che si possa guardare da tutte le angolazioni. Nell’ultimo periodo a Berlino abitavo a una manciata di fermate dal Weißen See e quando ero agitata finivo sempre lì. Mi piaceva starmene a leggere sotto gli alberi, soprattutto nei pomeriggi di fine estate in cui pioveva, ma non troppo, e le gocce cadevano fredde sulle pagine, creando piccoli rigonfiamenti. Mi sentivo vicina alle mie amiche che erano lontane, ripensando ai pomeriggi sui prati del Talvera in cui  sedersi sull’erba, ancora in hangover, era uno stato d’animo con la sua definizione.

Ho studiato, in ogni nuova città, le passeggiate da fare la domenica, o nei momenti di incertezza, e a guidarmi spesso erano i fiumi: vivo nel terrore di dimenticare quei percorsi.

Il tour di Kreuzberg, quello di Pankow che partiva dal Bürgerpark, le strane alternative dentro al Treptower Park, il giro per toccare tre delle mie vecchie case, scorgendo il Kanal in punti diversi: l’ultima volta che l’ho fatto era il 2016, cadeva la neve, mi ero quasi persa e poi mi ero ritrovata, grazie a un vecchio negozio di arredamento un po’ Russia sovietica; ho quasi pianto, sebbene fossi felice, in uno di quei giorni in cui, per la prima volta, mi sentivo una giornalista vera che faceva una cosa reale.

So che mi perderei a Namur, che non saprei più arrivare alla cittadella, che non riuscirei a trovare la libreria piccolissima vicino al fiume in cui ho comprato Il vecchio che leggeva romanzi d’amore in francese, per passare il tempo nella lavanderia a gettoni in cui portavo il mio bucato e in cui avrei voluto ambientare “il mio primo romanzo”. La prima volta che sono stata in trasferta per fare un’intervista da sola sono passata per la stazione di Namur, l’ho vista dal treno che prendevo quando tornavo a casa e atterravo a Charleroi. L’intervista era a Liegi, all’università, proprio di fronte al fiume lungo cui facevano il mercato italiano il sabato; una volta avevo speso sette euro per comprare un pacco di macine, biscotto che non mangio neanche in Italia, e mi ero messo a mangiarle su un ponte, un ponte simile a quello che attraversavo dopo il lavoro, quando mi sentivo abbattuta e andavo in centro,  a piazza del Popolo, poi a Piazza di Spagna.


Una sera c’era sciopero e sono andata a piedi fino a casa e mi sono messa a contare quante volte incrociavo il fiume, quante fontane ci fossero,  pensando a come arrivasse l’acqua alle fontane e a come all’improvviso persino Roma mi sembrasse un unicum e non un arcipelago di tante isole sconnesse tra loro. Capitava, la mattina, che andassi a correre al Parco degli acquedotti, e guardavo il ruscelletto che lo attraversa  chiedendomi se a un certo punto sarebbe diventato il Tevere.

D’altronde il parco nazionale delle Everglades – river of grass, ripeteva sconnessamente la nostra guida vestita da Indiana Jones su una barchetta col motore rumorosissimo –  è pieno di corsi d’acqua melmosi che a un certo punto diventano oceano – la cosa più simile al Vietnam che puoi trovare in Occidente.

Una sera, a Berlino, stavo aspettando la mia cena vietnamita da asporto e alla radio hanno passato una cover di By this river. Un signore ha detto a voce alta che è una canzone sull’amore, che prima è impetuoso, poi con la maturità diventa calmo, di una maestosità che fa paura; e la signora con lui gli ha risposto che “no, parla solo di tristezza, del tempo che scorre e che non puoi fermare”. Mi è rivenuto in mente, l’altro giorno, mentre fissavo il fiume e mi son chiesta se qualche goccia del Topino potesse arrivare nell’oceano.

Mi sono sentita in tutti i posti in cui sono stata, o in cui sarei potuta essere, tra impressioni scelte da altri momenti del tempo. Ho pensato a come ci sono arrivata lì, sul Topino, ai mille incastri del destino, alle cose tortuose che alla fine si calmano, all’immobilità dei laghi, all’Oceano, a Rarotonga, isole Cook, e alla spiaggia su cui sarei dovuta essere il giorno del mio trentesimo compleanno, a sorseggiare cocktail da una noce di cocco: invece c’era una pandemia ed ero a Viterbo. Ma mi son detta che in fin dei conti è andata bene così.

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