Make your own kind of music

C’è una puntata di Mad Men in cui Meghan Draper si lamenta con sua madre perché non riesce a fare l’attrice e sua madre le fa notare che è in buona compagnia: non tutte le bambine realizzano i propri sogni, il mondo non ha posto per così tante ballerine.

Anche io da piccola volevo fare la ballerina; che non potessi riuscirci l’ho capito a sette anni e da lì ho iniziato a dire che volevo fare Lilli Gruber. Dubito ci sia spazio per molte Lilli Gruber, ma non è questo il punto.

Il fatto è che da mesi questa storia del realizzare i sogni mi sta togliendo il sonno; e le energie per fare quel che normalmente mi fa star bene. Provo a scrivere e ho la crisi da foglio bianco. Provo a leggere e mi distraggo alla terza riga. Provo a concentrarmi e mi vengono in mente le cose più assurde. A volte mi chiedo semplicemente dove Maria Stella Gelmini acquisti i suoi blazer, e se sia morale aspirare all’estetica di una ministra di destra. Nei casi più gravi, però, mi faccio annebbiare la mente da una spirale di angoscianti domande esistenziali.

Sta andando tutto secondo i piani – e allora perché ho così paura? Per una volta nella vita non volevo scappare – perché me ne devo andare proprio adesso? Quando arriva il futuro? Perché sono stanca di questi giorni tutti uguali ma ho così poca voglia di iniziare cose nuove? Mi sono stancata di cambiare?

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I am a passenger

Tra Spoleto e Terni mi prende sempre il sonno, sia al mattino che alla sera. Questa strada l’ho fatta per anni e mi sono addormentato ogni giorno. Chi sa come mai. C’è come una vibrazione: tu vorresti stare sveglio, vedere  le colline, e invece ti prende il sonno.  
Lei va a Roma vero? Io vado al mare.
L’abbonamento del treno costa poco; mi metto il costume in un bagno a Tiburtina e prendo il trenino per Ostia: è bellissimo. Ci sono tutte queste persone felici. I ragazzini abbronzati. Qualche anno fa andavo sull’Adriatico. Ho fatto tutte le Marche, tutta la costa, fino a Rimini.
Conosco gente, faccio il bagno. Vedo il mare.
A me il mare piace tantissimo, anche se sono nato in Umbria. Prima andavo con mia moglie, ma lei ora è malata e non può stare troppe ore fuori casa. Allora io parto la mattina presto e torno il pomeriggio, così la sera stiamo insieme. Vado tre volte a settimana. Cerco sempre un amico che venga con me, ma dicono tutti che siamo troppo vecchi. Ma io lo faccio, vede? E sono ancora in perfetta salute.

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Does it spark joy?

Due anni fa, mese in più, mese in meno, sono stata al Reina Sofia e ho visto un’opera che ancora oggi continua a tornarmi in mente. C’era una sala quasi vuota e al centro, sotto una splendida luce plastica, una sedia piena di abiti. Sembrava quella della mia stanza di allora (rip appartamento in cui vivevo con la padrona di gattaccio) nei venerdì di messa in onda, quando per giorni non mi degnavo nemmeno di rimettere le magliette nel cassetto.

Da ragazzina, in casa con i miei, non potevo lasciare in giro nemmeno un calzino. Spargere i vestiti sulle sedie, sul letto, è stato il primo atto di ribellione della mia vita adulta. Ogni tanto mi capita di farlo ancora.

Mi piacerebbe essere più ordinata, ma il fatto è che mi piace troppo trovarmi la montagna davanti. Ridurmi all’ultimo. Dover scavare. Fare l’impresa per rimettere ogni cosa al suo posto. La gradualità non mi appassiona, preferisco rimandare. Impazzisco per la missione impossibile, per la ricerca infinita che mi fa scovare la perla nascosta e dimenticare le maledizioni che mi sono auto-inflitta mentre provavo a venirne a capo.

Credo sia per questo che cerco cose online aprendo decine di finestre. Scarico documenti che potrei non leggere mai. Ottengo grandi risultati se sono sotto pressione. Accumulo, ripulisco. Arrivo al nocciolo della questione con la sensazione di aver scalato l’Everest. Di aver provato a fare il meglio.

Sono anni che mi scompiglio la vita, per cercare di rimetterla in ordine.

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Rassegna stampa #5

Ben ritrovati, amici di Blue! Mentre cerco di sopravvivere al primo concorso della mia vita trovare una collocazione decente a questa rubrica facendo del sano stunting (?) per spiazzare la concorrenza (beccatevi un po’ di gergo tecnico), medito sull’opportunità di seguire il suggerimento del mio amico Leonardo e chiamare questo spazio Blue Monday.

Riuscirò a rispettare finalmente il mio antico proposito di pubblicare la nostra rassegna ogni lunedì? Come faccio a diventare una persona che mantiene i suoi impegni? Esiste una cura per la crisi da foglio bianco? A quando il lancio di un master tenuto da Andrea Scanzi per imparare a postare idiozie a raffica su argomenti a caso nove volte al giorno?

Niente, Blue ha sbadigliato e mi ha detto che vi sto annoiando. Basta convenevoli, le diamo subito la parola per ripercorrere insieme i grandi eventi di questi dieci giorni.

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Che cosa facevi l’undici settembre?

L’undici marzo duemilaventi avevo appena imparato a scrivere le date in russo. Ero davvero arrabbiata, perché non capivamo bene come organizzare il lavoro, litigavamo per ore tutti i giorni, mi sentivo incompresa e piena di rancore. Era pomeriggio, c’era una bella luce, mi sono messa le scarpe da ginnastica e sono uscita per farmi una corsa, anche se avrei dovuto copiare in un’e-mail le agenzie sul bollettino della Protezione Civile. Si poteva ancora uscire.

Ho fatto un giro intorno casa, invece del giro lungo, perché già mi sentivo in colpa. C’erano gli alberi che iniziavano a fiorire. Due bambini che giocavano a pallone lungo la discesa che porta a un garage. C’era il tabaccaio aperto, solo lui. Il prete che faceva una passeggiata camminando in tondo sul campetto di basket dell’oratorio.

L’undici marzo duemilaventi stavo correndo e a un certo punto dalle finestre aperte – erano i primi giorni che la gente teneva le finestre aperte – ho saputo che era stato dichiarato lo stato di pandemia. Una signora si è affacciata per innaffiare le piante. Poi sono iniziate a impazzire le chat. C’erano mille squilli che interrompevano la musica che provavo ad ascoltare. La riproduzione casuale di Spotify ha passato All dead. Mi sono sentita in colpa per essere in giro e sono tornata a casa. Camminando.

Ho fatto una foto ai fiori dietro la grata di un cancello.

Quando un domani mi chiederanno cosa facevo durante la quarantena dovrò dire che lavoravo quasi tutto il giorno. Ne sono davvero costernata.

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5.10.19

Mi sono sposata a tema Trenitalia: questo post, di conseguenza, non poteva che arrivare in ritardo. Ci ho messo un po’ anche a comporlo perché ero sotto messa in onda,  a essere sincera, ho fatto fatica a selezionare le cose da metterci dentro. Perché è passato un po’, ma mi sembra come cristallizzato nel tempo. Perché avrei tanto da dire e non so proprio da dove cominciare. Perché a volte le parole non bastano. E se provi a tradurre la felicità, corri il rischio di risultare banale.

Ci sono come delle cartoline che ho stampato davanti agli occhi. A un certo punto, sull’altare, ho abbracciato fortissimo Elisabetta che era lì, col suo pancione da ultimi giorni di gravidanza e il suo vestito meraviglioso, e io non capivo come fosse possibile che avesse fatto una cosa talmente grande per starmi accanto. In un momento imprecisato della serata è arrivata Giulia, direttamente da un’altro matrimonio, dopo non so quante ore di macchina, e forse non siamo nemmeno riuscite a farci una foto insieme. Per tutto il giorno volevo piangere, ma era come se la felicità mi invadesse superando persino la commozione. Mi sentivo in trance. Mentre adesso, se penso a mio nonno che si china per sistemarmi lo strascico, mi trasformo istantaneamente in una fontana.

Ne approfitto per dirvi che avevo uno strascico; e un velo lunghissimo. E un vestito talmente vaporoso che avrebbe potuto tranquillamente fare provincia. Io che volevo sposarmi con i pantaloni; o col tailleur e il cappello da diva, come Bianca Jagger.

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Something old, something new, something borrowed, something blue

C’è un poemetto inglese risalente non so a quando (Wikipedia si limita a definirlo traditional) che suggerisce alle spose delle cose da indossare. Qualcosa di vecchio, che simboleggia la continuità; qualcosa di nuovo, che mostri ottimismo per il futuro. Qualcosa di prestato, come se anche gli altri ti prestassero la felicità (questa non mi è del tutto chiara). Qualcosa di blu, colore che rappresenterebbe la purezza, l’amore, la fedeltà  (io sapevo che avesse a che fare con la malinconia, il blu, ho vissuto nella menzogna).

Sempre Wikipedia inglese ci informa che in occasione del suo sposalizio, Kate Middleton ha indossato come cosa vecchia un Carrickmacross lace (che sarebbe sta roba qua,), come qualcosa di nuovo degli orecchini di diamanti fatti da un gioielliere che pare sia importante e regalatele dai suoi genitori, come qualcosa di blu un nastro cucito nel vestito. Le avevano prestato una tiara di Cartier (fatta proprio con le manine del signor Louis-François Cartier) che avevano comprato alla regina madre per una qualche occasione ufficiale e regalato alla regina Elisabetta per il suo diciottesimo compleanno.

Al mio matrimonio, ovviamente, nessuno mi ha prestato tiare di diamanti, ma coi miei orecchini di perle (ho messo le perle anche se portano lacrime perché a me le perle stanno da dio e non vedo l’ora di potermi vestire come Elsa Fornero senza sembrare una bambina che ruba i vestiti alla mamma – Lilli Gruber ha detto che dobbiamo comprarci la giacca e vestirci professionali, io voglio vestirmi come Elsa Fornero al più presto amici), dicevamo, anche coi miei orecchini di perle da ragazza del popolo mi sono sentita un po’ una principessa (complice, forse, uno strascico che faceva provincia).

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La mia scalata verso il gattino

I gattini sono il bene e posso affermarlo con certezza. Sono morbidi, fanno le fusa, ti aiutano a prendere i like sui social. Da bambina ho avuto in casa uccelli, pesci rossi e tartarughe ma nulla, nulla è divertente come un micino che gira in tondo per acchiapparsi la coda, o che si spaventa vedendo la sua immagine riflessa allo specchio; è per questo, credo, che ho trascorso interi mesi della mia infanzia a supplicare i miei genitori di prendermene uno.

Romeo e Stella sono arrivati in casa in un luminoso pomeriggio di inverno quando io non avevo neanche dieci anni. A mio fratello, che aveva gli orecchioni, diedero il privilegio di scegliere l’esemplare della cucciolata che avremmo adottato. “Ma guardalo, poverino, come potresti separarlo dalla sua sorellina?”. E infatti, per la gioia di mia madre, mio padre si caricò in macchina due gattini.

Questo cosino tenerissimo è Romeo (foto di una foto del 1999)

In quinta elementare la maestra ci fece fare un tema su quale fosse stato il giorno più bello della nostra vita. Io descrissi nei dettagli la prima volta che vidi Romeo e Stella sul tappeto del salotto. “Ma come, ti chiedono qual è il giorno più bello della tua vita e parli dei gatti?”. “Sì, mamma, ma ci avevano vietato di parlare delle vacanze, delle nascite dei fratelli, delle attività coi genitori e della prima comunione”.  (Non era vero mamma, scusa).

Mio padre non li voleva sterilizzare e soprattutto, era convinto che ogni tanto dovessero andare a giocare all’aria aperta. Così, una volta, Romeo scappò di casa (causandomi varie crisi isteriche) e lo ritrovammo solo dopo settimane. Era salito su un albero altissimo, chiamammo i pompieri e appena questi poveracci arrivarono in cima alla scala lui si gettò giù come una patata lessa, volò per svariati metri ed entrò da solo nel trasportino.

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Cosa volevo fare da grande

Una volta mia madre mi mandò a consegnare un paio di scarpe a un calzolaio. Eravamo a Nola, durante una di quelle estate torride in cui potevo annoiarmi, fissare il vuoto e riflettere sui drammi della vita senza sentirmi troppo in colpa, come la gioventù borghese ottocentesca debosciata. Ieri sera, dopo aver rimandato per settimane (“sono uscita tardi”, “devo andare in palestra”, “vorrei passare al supermercato”) sono entrata nel negozio del calzolaio sotto casa per fargli riparare una borsa di pelle che ho comprato a Siviglia.

C’erano tre signore in fila, ad aspettare chiacchierando sulle sedie; scarpe dappertutto. Due bottiglie di acqua lete. Quadri orientaleggianti al muro, un CD di Cremonini e una macchina per cucire nera. Come quella che ha mia nonna, solo più grande. C’era caldo, un vecchio ventilatore sovrastava le chiacchiere e “Marmellata #25”.

Il calzolaio mi ha chiesto se volevo aspettare. “Dottoré, faccio tutto in due minuti”; non voleva soldi, quindi ho comprato una borsa che fa lui, nel tempo libero. Le teneva legate, “perché a Natale una signora se ne è ‘nguattate due senza pagare”. Ho dato una carezza al cane di una delle tre clienti in attesa. C’era pace, nel rumore ritmato, nella puzza di lucido per le scarpe, in quella valanga disordinata di sandali e stivali di tutte le taglie.

In una torrida estate di forse 13, 14 anni fa, ho pensato che avrei voluto fare un lavoro manuale, da grande. Avevo la testa colma di paranoie, di parole che volevano uscire e che rovesciavo su quadernini riempiti fitti fitti, senza mai lasciare una riga. Scrivevo a matita, per poter cancellare: un paio di giorni fa riordinavo i cassetti della mia camera di adolescente e ho scoperto che si è scolorito quasi tutto. Vorrei ribattere qualcosa al computer, per ricordo; poi mi leggo, mi vedo così diversa e quasi mi vergogno.

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And although my eyes were open, they might just as well been closed

Questa mattina mi sono svegliata abbastanza presto, non c’era traffico, la metro era deserta. Sono andata fino a Ottaviano, ho girato per negozi, ho comprato del caffè profumatissimo. Ho camminato, a lungo, mi sono fermata a scattare delle foto a Piazza del Popolo. Avrei voluto catturare alcune immagini, ma erano tanto belle che non me la sono sentita; non riuscivo a cristallizzare, in un momento, i due ragazzi seduti per terra che disegnavano – alla perfezione – l’obelisco. Non riuscivo a fermare, in uno scatto, il venditore di rose chino alla fontana, che bagnava ogni fiore, uno a uno, come stesse facendo il bagnetto a un bambino. Una coppietta di ultrasettantenni leggeva il giornale su una panchina, in mezzo al nulla (la Repubblica lei, il Corriere dello Sport lui). Due fratellini, di cinque/sei anni, correvano tra i turisti, sulle terrazze del Pincio; ho passeggiato – fermandomi spesso – per Villa Borghese. Sono andata a visitare la galleria di Arte Moderna e Contemporanea. C’erano un sacco di vecchietti che si fermavano davanti ai quadri un po’ perplessi, tra un “cosa vuol dire?” e un “almeno questo si è impegnato”.

“Mi scusi, le ho rovinato la fotografia”. Una bimbetta gattonava affascinata tra statuette di cani in metallo.

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