Cose che invidio ai bambini tedeschi

La Simona di un tempo stava alla maternità come Antonio Razzi sta all’Accademia della Crusca. Per anni ho pensato che sfornare marmocchi si sarebbe rivelata una catastrofe di proporzioni immani, come un autobus carico di Testimoni di Geova che prende d’assalto il tuo citofono alle sette del mattino di una domenica di pioggia.

Poi la sorte mi ha obbligata a condividere lo spazio vitale con le biomamme latte-macciato di Prenzlauerberg, e pian piano mi sono ritrovata a lanciare sempre meno maledizioni nei confronti di quei piccoli esserini biondi. I bambini tedeschi sono BELLI. Io sono fermamente convinta che tutti i bambini del mondo siano belli, ma quelli tedeschi sono adorabili, fissano i miei capelli e parlano tedesco. Ancora oggi, talvolta, mi ritrovo ad ascoltare incantata i discorsi di treenni capaci di usare i trennbare Verben senza esitazione; che segreti potrà mai avere il mondo per uno che a tre anni ha assimilato il meccanismo dei trennbare Verben?

L’altra sera guardavo Das weiße Band e ho quasi pianto di commozione per la scena in cui Martin entra nello studio del padre stringendo la gabbietta con l’uccellino, e col visino più triste e dolce del mondo esordisce con un “Herr Vater, ich hab eine Bitte”. Come si può non voler bene a un bambino che parla tedesco?

Se potessi scegliere, rinascerei mille volte dove sono nata. Eppure ci sono delle cose che invidio tantissimo ai bambini tedeschi, e che credo andrebbero offerte a tutti i bambini del mondo. E siccome sono una persona gentile, vi risparmierò la fatica di scovarle da soli lasciandovene qui un elenco completo. Siete pronti a sognare ad occhi aperti?

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Barbie figlia di papá viaggia in business class

Da quando vivo nella patria di Goethe ha imparato a prepararmi in meno di un quarto d’ora, ad arrivare agli appuntamenti con cinque minuti di anticipo, a mangiare quark e a bere qualunque cosa contenga caffeina senza storcere il naso. Ma se un tempo prenotavo treni con settimane di anticipo, oggi mi ritrovo sempre più spesso a decidere di tornare a casa dall’oggi al domani.

Il che, se posso dirla tutta, ha una serie infinita di vantaggi: le partenze, innanzitutto, mi caricano d’ansia. Ora che so che il 20 agosto dovrò prendere un aereo, mi sento già limitata e angosciata per tutte le cose che mi proporranno in quei giorni e che non potrò fare perché sarò in Italia. Io non so davvero come faccia la gente ad acquistare a Pasqua il biglietto di ritorno per Natale: finché posso voglio essere libera, e se non ho un ampio margine di improvvisazione, la qualità della mia vita peggiora notevolmente, trascinandomi nel vortice delle crisi nervose e delle ore passate a lanciare maledizione alla redazione Ansa che ha aperto gli articoli ai commenti del pubblico.

Un tempo, forse, aveva anche un senso sopportare tanto stress; prima che la compagnia low cost irlandese cancellasse la tratta Leipzig-Roma Ciampino, accettavo di buon grado ogni limitazione in cambio di un biglietto da 22 euro e 99. Ma ora che anche la compagnia inglese col sito arancione ha smesso di fingere di avere prezzi bassi, non vedo perché dovrei negarmi il piacere di fare un annuncio in stile “ciao, dopodomani arrivo a Fiumicino, l’ho appena deciso, quando ci vediamo?”. Fa tutto un altro effetto sugli interlocutori, ve lo posso assicurare.

Ma c’è di più. Siccome per decollare ad orari assurdi da un posto brutto come l’aeroporto di Schönefeld dovrei devolvere delle cifre assurde ad un popolo che negli ultimi anni ha prodotto di buono solo Harry Potter, ho scelto di sborsare sistematicamente una decina di euro in più per lasciarmi coccolare dall’enorme qualità della nazione che mi ospita.

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Le cronache di Simonarnia: la TK, la sirenetta e la casa allagata

Avete presente quelle strisce in cui Zerocalcare si scusa coi lettori perché non pubblica mai niente, e decine di adulatori gli scrivono “tranquillo, non importa, sei sempre un figo” serbando un “devi morì male, borghese!” nel segreto dei loro cuori? Io sì, purtroppo, e ho paura che questo post possa assumere quel tono.

In questi giorni ho cinquemila cose da scrivere, ma il mio cervello è in stand by e riesce solo a produrre roba da pubblicare qui. Vi giuro che mi siedo, apro i documenti Word su cui dovrei lavorare e ad un certo punto, come per magia, non so più nulla. Allora mi dico “suvvia, trasforma in parole questa cosa stupidissima che ti è appena venuta in mente”, e senza neanche accorgermene, mi ritrovo ad ubbidire.

La verità è che non riesco più a capire in che direzione stia andando la mia vita, cosa voglio farne e dove sarò domani; sto dormendo in troppi letti, perché cambio città ogni due giorni e non faccio neanche in tempo ad ambientarmi che devo già ripartire. Quindi non chiudo occhio, sono stanca, non mi concentro, mi sento nervosa; ci provo a stare a galla, ma non ci riesco. Mi ero promessa di tornare a Berlino, non toccare alcolici per un mese, di andare a correre, di studiare tre ore al giorno, di scrivere e crearmi una routine in cui non fosse necessario vedere troppa gente.

E tac, un tubo ha deciso di scoppiare e sommergere d’acqua la nostra casa.

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I due minuti d’odio

Nel primo servizio di telegiornale che ricordo chiaramente, un gruppo di persone bruciava e calpestava la bandiera americana; suppongo fossero Iracheni, o una cosa così. Una parte di me era terrorizzata, l’altra pensava a quanto sarebbe stato divertente sfogare la rabbia in quel modo. Con il passare degli anni, in verità, il mio istinto di giovane piromane è andato scemando, lasciando il posto a un’anima da wannabe cinica sensibile che non sopporta la  visione del nonno coi baffi che abbraccia la copia della coppa del mondo sul sei/sette a zero di Germania-Brasile.

Talvolta però, la gente si impegna più del solito e trasforma la mia bacheca di Facebook in un’autobotte di materiale altamente infiammabile. In quei giorni devo mettere i fiammiferi sotto chiave, fissare il pensiero sulla mia casa berlinese allagata (ah, giusto, la mia casa di Berlino a quanto pare si è allagata) e scacciare dalla mente l’immagine di me che fisso il mondo con la stessa faccia di Fred  sommerso dai fischi durante Germania-Brasile.

E così si diventa tristi, si urla addosso a ignari passanti colpevoli di camminare troppo piano, si suona il clacson al povero neopatentato che non riesce a partire appena scatta il verde al semaforo, si ignora categoricamente il vecchietto cui si dovrebbe cedere il posto. Una cosa brutta, bruttissima, che potremmo facilmente evitare con un semplice e geniale espediente: i due minuti d’odio.

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Memorie di una ragazza che voleva andare a un matrimonio

L’uomo della mia vita si chiama Marius, fa il poeta, il rivoluzionario e in uno dei capitoli finali dei Miserabili sposa Cosette. Quando la vede per la prima volta, rimane a fissarla per un tot di secondi prima di esclamare una roba tipo “ho veduto un angelo”. Ecco, quella scena è una delle pochissime parentesi sdolcinate che riesco a tollerare nella storia della letteratura e del cinema. Le frasi smielate mi ripugnano per natura, rendendomi nervosa e aggressiva come Zinédine Zidane in procinto di distribuire testate.

Il matrimonio è l’arte di dividere in due i problemi che non si hanno da soli, diceva la nonna di Vic del Tempo delle Mele, e quando penso a quel film (che credo di aver visto intorno ai 12-13 anni) ricordo questa citazione ancora prima del lento ballato con le cuffie in mezzo alla folla festante. Il punto è che, al di là della mia scarsa considerazione per matrimoni, cuoricini e ammore, tendo a sentirmi profondamente sconsolata per non aver mai partecipato alla gioia di due persone a me care che convolano a nozze.

Questo week end sono stata a Firenze, e ho passato una buona mezz’ora a discutere di abiti da sposa con Martina, Irene e Silvia; avevamo visto nel pomeriggio una novella sposa in bianco e rosso, con delle scarpe terribili e un’acconciatura realizzata con buone probabilità dal parrucchiere di Krusty il clown. Non che la cosa mi sconvolgesse particolarmente, a dire il vero: durante il tempo libero, mi capita spesso di guardare le foto scattate ai matrimoni trash dei russi, o di rimirare uomini che pronunciano il sì con abito elegante e Birkenstock nella chiesa cattolica del mio quartiere, la stessa del parroco che una volta al mese mi manda inviti via posta per i corsi prematrimoniali.

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Cambiamenti

Cambiamenti  è il titolo di un capitolo di Piccole Donne. Da bambina ho letto Piccole Donne un miliardo di volte; ancora oggi, quando ho bisogno di certezze, rileggo Piccole Donne. Se volessi essere davvero sincera vi racconterei che ho passato anni della mia via a sentirmi Jo, e che una parte nascosta del mio subconscio continua a fare cose nel tentativo di emularla. Quindi, se domani dovesse saltare fuori un vecchio accademico tedesco con la passione per la letteratura, sarei costretta a fare un grande lavoro sulla mia psiche, per ricordarle che mai e poi mai vorrei finire ad allevare marmocchi in un collegio.

Il mio piano A, infatti,  consiste nel diventare Lilli Gruber, andare a fare l’inviata sotto le bombe, inventarmi una posizione per leggere le notizie sul gobbo, invecchiare, imborghesirmi e piazzarmi con Cacciari in un salotto in cui demolisco gli esponenti della Lega e gli amici di Scanzi che la par condicio mi impone di invitare. Gli zigomi restano i miei, però. Ve lo prometto.

Questa storia di Lilli Gruber l’avevo raccontata con le stesse parole qualche mese fa, in un post che è rimasto per sempre tra le bozze. In quel post spiegavo anche che se i miei piani andassero in malora,  mi vedrei bene a fare disegnini per la sigla di Ballarò, a scrivere sceneggiature per le storie di Rubicchio nella metropolitana di Roma, a scovare gossip per la BVG Fenster. O a proclamarmi ideologa del movimento 5 stelle da un blog in cui sparo assurdità, per osservare le reazioni della gente e scriverne un saggio.

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Liebes Tagebuch

In questi giorni il dio della pelle morbida mi odia più del solito, e ha deciso di vendicarsi di me perché non mi strucco mai. Il che, dal suo punto di vista, sarebbe anche del tutto comprensibile; solo che per torturarmi come si deve, ha stretto un’alleanza con il dio dell’insonnia. E qui si è dimostrato davvero crudele. Perché ora va bene tutto, ma non farmi dormire come si deve per tre settimane mi pare una roba di una cattiveria inaudita: un po’ di ombretto sugli occhi e mi ritrovo a Guantanamo. Che mondo ingiusto, amici miei!

Poiché io e il sonno non siamo mai andati d’accordo, ho sviluppato negli anni una certa abilità nell’inventare attività notturne che conciliassero l’appisolamento; posso assicurarvi, quindi, che se guardate video soporiferi per più di venticinque minuti, crollate sulla tastiera del computer con Youtube ancora acceso. Io purtroppo sono un caso grave, e l’altra sera sono rimasta sveglissima anche dopo un’ora di spezzoni di Italia-Costa Rica (probabilmente le scarpine fluo e le divise arancioni dei portieri sovraccaricano il mio cervello di stimoli, altrimenti non mi spiego il motivo di questa misera sconfitta).

Un’altra tattica infallibile consiste nell’aprire casella elettronica delle newsletter (dai, non ditemi che non ne avete una), e mettersi ad analizzare i profondi testi con cui le aziende ci martellano quotidianamente; io ricevo da anni le comunicazioni di un ufficio marketing che fa una sottospecie di corso stile “blogging for dummies“. Lo scorso mercoledì ho letto una loro email e ho scoperto  di essere una pessima blogger, fondamentalmente perché inchiostro simpatico non regala certezze ai suoi lettori.

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Distanze

Un giorno le mamme ci dissero che potevamo iniziare a tornare a casa da soli. Finivamo la scuola, ci attardavamo a chiacchierare con tutti, poi ci muovevamo insieme, a ranghi compatti. Prima salutavamo Francesco, che abitava a metà strada; poi io e Roberto andavamo ancora avanti. Vivevamo a pochi metri di distanza. La mia scuola elementare era appena sopra il mio asilo, che a sua volta sovrastava la mia scuola media.

Quando andai al liceo, misi cinque chilometri tra la nuova me e la mia vecchia vita; mi sembrava di rinascere, di cominciare a respirare. Di far sparire di un colpo quei tre anni orribili, quel periodo chiamato scuola media che aveva distrutto le mie certezze, quanto di più bello c’era prima.

A quindici anni credevo di essere strana, con quel mio modo di sentirmi stretta; a diciotto sapevo che c’erano tante altre persone come me e dovevo solo cercarle.

Così me ne sono andata, con le mie paure e i miei entusiasmi; con una consapevolezza diversa. Con delle certezze che l’università di Bolzano avrebbe raso al suolo, per farmi costruire delle altre certezze partendo da zero.

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