Cose che impari quando organizzi un matrimonio

Qualche settimana fa una ragazza che vive nel condominio in cui sono cresciuta, e in cui abitano ancora i miei, si è sposata. Un paio di sere prima del matrimonio il suo oramai marito le ha organizzato una serenata. Mentre tutto il vicinato cantava discutibili canzoni di Eros Ramazzotti, ho capito che quando dici al mondo che ti sposi succedono cose davvero bellissime. 

Può accadere che le tue amiche ti portino a Berlino dopo aver spergiurato per mesi che sareste andate a Scalea. Persone che non senti da una vita ti mandano messaggi carini (questo dipende in gran parte da mia madre, che non perde occasione di dare la notizia a chiunque incontri per strada). I tuoi colleghi ti organizzano gli aperitivi a sorpresa. C’è gente che fa piccoli regali inaspettati, c’è chi affronta viaggi chilometrici solo per poterti stare accanto.

Avverti, in generale, una certa partecipazione popolare al tutto: non  mi era mai accaduto, finora, di sentire “la società” intorno a me prepararsi così tanto a un evento che mi riguarda. Mi sembra di essere circondata d’amore a ogni livello.

Proprio ieri, mentre sistemavo i miei 4000 chili di vestiti (ho regalato qualcosa come nove sacchi neri di abiti negli ultimi due mesi, ma ho ancora 4000 chili di vestiti e nessuna idea su cosa indossare al mattino) nella mia casetta nuova, ho realizzato quanto mi senta perfettamente felice. Il pensiero di tutto quello che accadrà tra qualche giorno mi proietta in un’atmosfera magica.

Sposarsi è bellissimo. Organizzare un matrimonio, però, è un incubo in piena regola. 

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Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze

Quella del 2018 è stata un’estate memorabile. Ho visto posti nuovi, passato giornate incredibili, fatto attività semplici e quotidiane, ma in modo del tutto diverso; mi sono rilassata, ho detestato Roma e il caldo di Roma, ma sono riuscita a esserne vittima per un tempo limitato. Per il mio compleanno sono stata a Siviglia; la settimana di Ferragosto siamo andati al Sud.

Avevamo studiato un piano in cui tutto sarebbe potuto andare storto (tre città, cinque giorni, due treni, troppi autobus, la Salerno – Reggio Calabria): e invece, come per magia, filava tutto liscio. Il punto di massimo disagio è stato trascinare le valigie sui gradoni dei Sassi di Matera, ma in fondo è giusto così, mica ho cercato di farmi venire una parvenza di bicipiti andando in palestra tutto l’anno per nulla.

Mi sono convinta, a un certo punto, che il Meridione sia il posto perfetto per caricare le pile scariche. Ci sono problemi, e io non voglio non vederli. Ma ho sempre l’impressione che stia cambiando qualcosa; che è come se ci fosse un rinascimento (che alla mia città manca). Che è come se pian piano si stia recuperando una visione: spero non sia dovuto all’attesa del reddito di cittadinanza.

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Wilma, la prova costume! (Ma anche la clava, insomma…)

Da quando vivo da sola, ho avuto 34 coinquilini. Di tutti i tipi. C’erano amanti dei gatti, maniaci della vodka, giovani esploratori, aspiranti giardinieri e  fan del duce. In Belgio dividevo il bagno con otto persone. Nella mia prima casa a Berlino mi ritrovai con due austriache adorabili e cinque armene psicopatiche che andavano a lavoro di notte in minigonna sui pattini. Ho avuto la fortuna strabiliante di trascorrere ben tre settimane con una simpatica fanciulla isterica munita di amante sessantenne. In un palazzo pieno di bimbi turchi, che giocavano in cortile 24 ore su 24.

Un giorno sono tornata a casa e i miei coinquilini belgi, simpatici energumeni da 90 kg l’uno, guardavano in tv il matrimonio di William e Kate, commentando gli outfit degli invitati e spettegolando al telefono con le mamme. Gli stessi coinquilini davano feste per gente che non conoscevano e dormivano in corridoio almeno due volte la settimana, perché da ubriachi non riuscivano ad aprire la porta delle loro stanze.

Avevamo una cucina con divano sfondato. La pulivo solo io quella cucina.

Ho avuto anche coinquilini straordinari, per carità. Attualmente convivo con delle ragazze deliziose, ho diviso appartamenti con le mie migliori amiche e ho conosciuto grandi amiche condividendo appartamenti. Sulle mie esperienze di coinquilinaggio, però, potrei scrivere un libro. Che diventerebbe un best seller tra gli psichiatri desiderosi di fare pratica.

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È settembre è settembre si può fare di piùùù

A 12/13 anni cantavo da solista so this is Christmas, and what have you done? Another year’s over, and a new one just begun. Era la recita della befana, nella sede degli scout, e Stefano suonava la chitarra. La gente cresce, assilla gli amici per mesi prima di decidere cosa fare a Capodanno; poi va a una mega festa, si annoia, beve per dimenticare, Brigitte Bardot Bardot, si addormenta e annota in hangover promesse deliranti che tempo febbraio avrà già dimenticato.

Io non mi rassegno al passare del tempo, e continuo a considerare settembre come punto di inizio del mio anno solare. Mi vergogno a comprare il Sole 24 ore anche ora che i finti intellettuali d’Italia hanno gettato la maschera, e in mancanza dell’Unità si lanciano direttamente sulla Gazzetta dello Sport. Cerco pubblicazioni che mi facciano sentire il più lontana possibile dalla casta dei capitalisti e dalle vecchiette romane che acquistano Il mio papa. Sono la gioia degli edicolanti di ogni dove.

Mia nonna, alla mia età, aveva già due figlie, io fermo i netturbini implorando “la prego non getti via così quella copia indifesa di Le Figaro” “Ma è di ieri” “Ma non importa”. Zio Paperone sarebbe fiero di me.

E quindi è settembre, inizia la vita, e invece del diario col gatto mi trovo a scegliere la lista delle cose da cominciare ad ottobre. Perché a ottobre, ragazzi, si cambia, ma io all’alba del 18 settembre non so ancora niente, perché pianificare ci fa schifo, siamo gente strong, che è proletaria, e improvvisiamo.

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Oggi è settembre, è il compleanno di Tolstoj

Era il 2002, avevo dodici anni e nel nostro vecchio soggiorno i gatti dormivano sulle gambe di mio padre. Guardavamo la tv, seduti sul divano; guardavamo un programma che parlava di Siberia. A Bolzano, in Erasmus, c’era una ragazza con cui facevo tandem, che viveva a Pietroburgo ed era nata in Siberia. Una volta mi aveva scattato delle foto, avevamo bevuto vino e io avevo accompagnato con Irene degli studenti americani in  giro per l’università. Ero brilla e felice.

A dodici anni iniziavo a leggere letteratura da adulta; parecchi mesi dopo, mettendo in ordine uno scaffale, trovai un libro ingiallito con il ritratto di Tolstoj. Un libro ingiallito citato in tv. In uno speciale. Si parlava di Siberia.

Oggi è il compleanno di Tolstoj, me lo ha detto Google, e io ho riguardato il doodle una dozzina di volte; una volta iniziai un corso di russo, per riuscire a leggere Anna Karenina come la scrisse lui. La prima pagina di Anna Karenina. Sarei già soddisfatta.

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About Perugia

Lunedì mattina, alla stazione Termini, mi hanno rubato un ombrello. Lo avevo lasciato sulla valigia, mentre pagavo un giornale in fila all’edicola .Oh, dottoré, t’hanno fregato ‘na cosa. Un ombrello. Un ombrello comprato dai cinesi in cambio di una manciata d’euro. Bisogna essere davvero meschini  per compiere questi misfatti in un giorno di pioggia.

-Buongiorno, è questo l’Intercity che porta ad Ancona?

-Certamente!

-Ma sembra un regionale

-Ma in questo le porta si aprono automaticamente col bottone rosso.

-Ah.

La signora di fronte a me schiavizza la sua povera badante dell’Est costringendola a tirarle giù la valigia ogni due per tre. Io avere tuo posto, ma per me meglio stare seduta vicino signora. Possiamo scambiare? Per me non c’è problema. Ma tu sei sicura di non voler scappare in fondo al treno?

Più avanti un Reparto femminile canta canzoni degli 883 urlando a squarciagola. Ora vorrei capire cos’è questa storia degli scout che prendono gli Intercity invece dei regionali. L’essenzialità dove sarebbe finita? Dove li avete trovati i soldi?Matteo si è messo a donare 80 euro per le tende? Perché fate il campo a settembre? Sto invecchiando.

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Il balenottero di Loano e la perdita dell’innocenza (un post con dedica)

C’era una volta, in un paese lontano, una bimba felice che ignorava l’esistenza delle parole outfit e color block;  la fanciulla cresceva serena in età e intelligenza, ma in un nebbioso pomeriggio del maggio belga, una regina cattiva chiamata LUB le impose di trovarsi un tirocinio che la gettò in un mondo fatto di selfie e 100 per 100 poliestere. Bastarono poche ore e una manciata di click per rivelare a Simona l’esistenza di migliaia di signorine che amavano abbinare capi a casaccio e farsi fotografare in garage/in balcone con i sacchi dell’umido/sul ciglio della strada coi cavalcavia sullo sfondo da obbedienti cagnolini  fidanzati muniti di Reflex.

Molte di loro affermavano di lavorare presso “la vita”, riempiendo con cadenza settimanale la sezione “travels” del loro blog a suon di foto sul lungomare di Civitavecchia; le più audaci puntavano a una platea internazionale, traducendo le didascalie  i post nell’idioma di Shakespeare (è arrivata l’estate e posso scoprirmi le gambe ⇒ is arrived summer and I can find me legs ). Ogni momento della giornata si trasformava nell’occasione ideale per sfoggiare una nuova mise: che si trattasse della recita dell’asilo del cuginetto  della prima all’opera, della sagra del paesello   di un importante festival musicale o del funerale della nonna, le fashion blogger in questione avevano sempre il vestito perfetto per attirare i commenti di migliaia di lettori.

Perché (quale meraviglia!) esistevano effettivamente tantissime persone pronte a scrivere qualche riga sotto quelle 3 foto buttate lì senza un apparente ordine logico: piovevano “amazing“, fioccavano “follow to follow?”, si sprecavano i “passa da me, nuovo post”. Le star che avevano sfondato, poi, vantavano anche un po’ di spam, di interventi delle arabe, di link alla pagina di Gardaland e più di ogni altra cosa, di richieste di post a tema da parte di ferventi ammiratori.

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Barbie figlia di papá viaggia in business class

Da quando vivo nella patria di Goethe ha imparato a prepararmi in meno di un quarto d’ora, ad arrivare agli appuntamenti con cinque minuti di anticipo, a mangiare quark e a bere qualunque cosa contenga caffeina senza storcere il naso. Ma se un tempo prenotavo treni con settimane di anticipo, oggi mi ritrovo sempre più spesso a decidere di tornare a casa dall’oggi al domani.

Il che, se posso dirla tutta, ha una serie infinita di vantaggi: le partenze, innanzitutto, mi caricano d’ansia. Ora che so che il 20 agosto dovrò prendere un aereo, mi sento già limitata e angosciata per tutte le cose che mi proporranno in quei giorni e che non potrò fare perché sarò in Italia. Io non so davvero come faccia la gente ad acquistare a Pasqua il biglietto di ritorno per Natale: finché posso voglio essere libera, e se non ho un ampio margine di improvvisazione, la qualità della mia vita peggiora notevolmente, trascinandomi nel vortice delle crisi nervose e delle ore passate a lanciare maledizione alla redazione Ansa che ha aperto gli articoli ai commenti del pubblico.

Un tempo, forse, aveva anche un senso sopportare tanto stress; prima che la compagnia low cost irlandese cancellasse la tratta Leipzig-Roma Ciampino, accettavo di buon grado ogni limitazione in cambio di un biglietto da 22 euro e 99. Ma ora che anche la compagnia inglese col sito arancione ha smesso di fingere di avere prezzi bassi, non vedo perché dovrei negarmi il piacere di fare un annuncio in stile “ciao, dopodomani arrivo a Fiumicino, l’ho appena deciso, quando ci vediamo?”. Fa tutto un altro effetto sugli interlocutori, ve lo posso assicurare.

Ma c’è di più. Siccome per decollare ad orari assurdi da un posto brutto come l’aeroporto di Schönefeld dovrei devolvere delle cifre assurde ad un popolo che negli ultimi anni ha prodotto di buono solo Harry Potter, ho scelto di sborsare sistematicamente una decina di euro in più per lasciarmi coccolare dall’enorme qualità della nazione che mi ospita.

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Le cronache di Simonarnia: la TK, la sirenetta e la casa allagata

Avete presente quelle strisce in cui Zerocalcare si scusa coi lettori perché non pubblica mai niente, e decine di adulatori gli scrivono “tranquillo, non importa, sei sempre un figo” serbando un “devi morì male, borghese!” nel segreto dei loro cuori? Io sì, purtroppo, e ho paura che questo post possa assumere quel tono.

In questi giorni ho cinquemila cose da scrivere, ma il mio cervello è in stand by e riesce solo a produrre roba da pubblicare qui. Vi giuro che mi siedo, apro i documenti Word su cui dovrei lavorare e ad un certo punto, come per magia, non so più nulla. Allora mi dico “suvvia, trasforma in parole questa cosa stupidissima che ti è appena venuta in mente”, e senza neanche accorgermene, mi ritrovo ad ubbidire.

La verità è che non riesco più a capire in che direzione stia andando la mia vita, cosa voglio farne e dove sarò domani; sto dormendo in troppi letti, perché cambio città ogni due giorni e non faccio neanche in tempo ad ambientarmi che devo già ripartire. Quindi non chiudo occhio, sono stanca, non mi concentro, mi sento nervosa; ci provo a stare a galla, ma non ci riesco. Mi ero promessa di tornare a Berlino, non toccare alcolici per un mese, di andare a correre, di studiare tre ore al giorno, di scrivere e crearmi una routine in cui non fosse necessario vedere troppa gente.

E tac, un tubo ha deciso di scoppiare e sommergere d’acqua la nostra casa.

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Memorie di una ragazza che voleva andare a un matrimonio

L’uomo della mia vita si chiama Marius, fa il poeta, il rivoluzionario e in uno dei capitoli finali dei Miserabili sposa Cosette. Quando la vede per la prima volta, rimane a fissarla per un tot di secondi prima di esclamare una roba tipo “ho veduto un angelo”. Ecco, quella scena è una delle pochissime parentesi sdolcinate che riesco a tollerare nella storia della letteratura e del cinema. Le frasi smielate mi ripugnano per natura, rendendomi nervosa e aggressiva come Zinédine Zidane in procinto di distribuire testate.

Il matrimonio è l’arte di dividere in due i problemi che non si hanno da soli, diceva la nonna di Vic del Tempo delle Mele, e quando penso a quel film (che credo di aver visto intorno ai 12-13 anni) ricordo questa citazione ancora prima del lento ballato con le cuffie in mezzo alla folla festante. Il punto è che, al di là della mia scarsa considerazione per matrimoni, cuoricini e ammore, tendo a sentirmi profondamente sconsolata per non aver mai partecipato alla gioia di due persone a me care che convolano a nozze.

Questo week end sono stata a Firenze, e ho passato una buona mezz’ora a discutere di abiti da sposa con Martina, Irene e Silvia; avevamo visto nel pomeriggio una novella sposa in bianco e rosso, con delle scarpe terribili e un’acconciatura realizzata con buone probabilità dal parrucchiere di Krusty il clown. Non che la cosa mi sconvolgesse particolarmente, a dire il vero: durante il tempo libero, mi capita spesso di guardare le foto scattate ai matrimoni trash dei russi, o di rimirare uomini che pronunciano il sì con abito elegante e Birkenstock nella chiesa cattolica del mio quartiere, la stessa del parroco che una volta al mese mi manda inviti via posta per i corsi prematrimoniali.

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