Che cosa facevi l’undici settembre?

L’undici marzo duemilaventi avevo appena imparato a scrivere le date in russo. Ero davvero arrabbiata, perché non capivamo bene come organizzare il lavoro, litigavamo per ore tutti i giorni, mi sentivo incompresa e piena di rancore. Era pomeriggio, c’era una bella luce, mi sono messa le scarpe da ginnastica e sono uscita per farmi una corsa, anche se avrei dovuto copiare in un’e-mail le agenzie sul bollettino della Protezione Civile. Si poteva ancora uscire.

Ho fatto un giro intorno casa, invece del giro lungo, perché già mi sentivo in colpa. C’erano gli alberi che iniziavano a fiorire. Due bambini che giocavano a pallone lungo la discesa che porta a un garage. C’era il tabaccaio aperto, solo lui. Il prete che faceva una passeggiata camminando in tondo sul campetto di basket dell’oratorio.

L’undici marzo duemilaventi stavo correndo e a un certo punto dalle finestre aperte – erano i primi giorni che la gente teneva le finestre aperte – ho saputo che era stato dichiarato lo stato di pandemia. Una signora si è affacciata per innaffiare le piante. Poi sono iniziate a impazzire le chat. C’erano mille squilli che interrompevano la musica che provavo ad ascoltare. La riproduzione casuale di Spotify ha passato All dead. Mi sono sentita in colpa per essere in giro e sono tornata a casa. Camminando.

Ho fatto una foto ai fiori dietro la grata di un cancello.

Quando un domani mi chiederanno cosa facevo durante la quarantena dovrò dire che lavoravo quasi tutto il giorno. Ne sono davvero costernata.

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