Timore. Tremore

Certe paure, senza neanche saperlo, le respiri dalla nascita, come facessero parte di un  corredo genetico.

Il 23 novembre 1980 mia madre aveva mal di testa ed era rimasta a casa con la sua amica Anna. Erano sole, nella camera coi lettini, dove da bambina dormivo con mio fratello e mia cugina sui materassi buttati per terra.

I miei nonni non c’erano, i miei zii non c’erano. Non appena cominciò la scossa, Anna prese mia madre per un braccio e la trascinò giù per le scale. Erano tutti in strada. Quando mia nonna arrivò in piazzetta e vide che mia madre era scappata scalza, tornò di sopra a prenderle le ciabatte. A prendere le cose che servivano per dormire. In macchina.

Il 23 novembre 1980 mio padre era in giro coi suoi amici e vide i palazzi del corso oscillare, quasi toccarsi tra loro mentre la terra tremava. C’era Michele, c’era Ernesto. Non avevano mai sentito una scossa, prima. Si misero a correre verso la piazza e mentre correvano, sentivano cadere calcinacci. Una chiesetta stava crollando. Le chiesette crollarono, tutte.

La casa dei miei nonni paterni trema tantissimo quando passano gli autobus. Il 23 novembre 1980, mia zia si mise a urlare e mia nonna le chiese “ma secondo te, dove stanno andando tutti questi pullman?” prima di rendersi conto. Prima di capire cosa succedeva. La mia casa, a Perugia, trema tantissimo quando passano gli autobus. Se per strada c’è un camion, il letto sobbalza, i vetri delle finestre ballano.

Il 24 agosto 2016 ero rimasta in piedi fino a tardi a guardare Grey’s Anatomy perché non riuscivo a dormire. Ero sola in casa. Io non ho mai guardato Grey’s Anatomy, ho cominciato a seguire delle puntate a caso perché lo facevano le mie coinquiline. Non ho messo la catena alla porta perché dopo quell’overdose di malati ho pensato “cosa faccio se mi sento male? Se mi devono soccorrere e sono sola in casa? Non metto la catena alla porta”.

Mi sono svegliata perché tremava tutto, non sapevo dove andare e per una volta (l’unica, finora, della mia vita) ho pensato che potessi morire. Nel palazzo non c’era nessuno, quando con la seconda scossa ho visto l’ombra del crocifisso in cucina ondeggiare – a destra, a sinistra. Fino a sembrare appeso al contrario. Quasi una cosa satanica. – sono uscita fuori, in pigiama. Nel palazzo non c’era nessuno, rimbombava la voce della conduttrice di Rai News 24. L’avevo accesa io, la tv. Volume 4.

Non è razionale, poi scopri che non può accadere nulla. Sulla chat della scuola si rincorrono i messaggi, non ho credito al telefono, non posso chiamare nessuno. Ho preparato una borsa, come se dovessi scappare, ficcandoci dentro le cose più impensabili, mentre aspettavo che Francesco mi venisse a prendere. Alle 4 del mattino.

Appena sono salita in macchina ho sentito padre Enzo Fortunato del Sacro Convento di Assisi che diceva che sì, loro stavano tutti bene. L’uomo che in due anni di scuola non abbiamo mai smesso di intervistare. Abbiamo fatto la strada ascoltando la radio, un po’ tenendoci per mano, dicendo “quanto è bella Assisi illuminata”. In radio hanno mandato l’inno nazionale suonato dalla Berliner Philharmoniker. Le 5 del mattino.

C’erano tante auto lungo la E45. “Anche dopo il ’97 siamo andati a prendere i nostri parenti che vivevano altrove per stare insieme. Fanno tutti così”. Ci siamo fermati a prendere un caffè ed erano tutti lì, in quel bar dell’autogrill, in tuta, in pigiama. Coi bambini, coi racconti. Intrecciati tra passato e presente. Tra la scossa che c’era appena stata; tra quelle incastonate nei ricordi. “Non c’era così tanta gente da Capodanno”, ha detto la ragazza alla cassa.

A Foligno, fuori da ogni bar, c’erano intere famiglie a mangiare i cornetti. La nonna di Francesco si è fatta accompagnare a casa di una parente, a vedere come stava.

Comunità.

Abbiamo passato ore a guardare la tv. Ogni tanto il nonno di Francesco compariva e chiedeva “quanti sono i morti?”. 10, 30, 50. Giocavamo a Munchkin. A Monopoli la sera, ma io ero stanca e mi si chiudevano le palpebre. Scappavi sotto al tavolo. Ci chiedevamo, a vicenda, perché i cani stessero abbaiando. Dormivamo nello studiolo al piano terra e io mi lanciavo in assurdi calcoli per capire dove sarebbe potuto cadere il lampadario.

Io ero sul lettino, Francesco per terra, con il sacco a pelo. Ci davamo la mano. Fissavo il castello Lego che avevamo portato di sotto, come un talismano. Avevo paura. Ma non mi ero mai sentita così tanto al sicuro.

Quando incontravi amici non parlavi d’altro. Siamo stati alle terme e raccontavamo in continuazione come era stato. C’era una signora strana che girava in tondo facendo video. Dovevano andare tutti a un matrimonio. Abbiamo fatto un cruciverba; è stata una bellissima giornata.

Non sono riuscita a dormire da sola per giorni. A casa non mi sarebbe successo nulla, ormai lo avevo capito. Ma avevo troppa paura. Di stare da sola.

Il 26 ottobre avevo appena finito di fare l’esame di stato e tornavo da Roma, in macchina, e pioveva tantissimo, ascoltavamo la radio e invece delle partite mandavano cronache del terremoto. Il 28 ottobre ero a casa, a Genzano, tremava, d’istinto ci siamo messi tutti e quattro sotto un muro portante. Io, mio padre, mia madre, mio fratello. Pensavo solo “speriamo non sia troppo forte, speriamo non faccia troppi danni”.

Il 25 ottobre, a cena, mia cugina mi aveva raccontato la storia dei pullman, di mia nonna e di mia zia. Non la conoscevo. Il 29 ottobre mio padre ha scaricato un prospetto sui terremoti nella storia per concludere che Perugia è più sicura dei Castelli Romani. E tranquillizzare mia madre. Mentre mezza Roma si lagnava sui social di quanto avesse avuto paura – Roma, chilometri e chilometri lontano dall’epicentro – sono riemersi post di amici marchigiani, conosciuti anni fa, al mare. Foto di stanza sventrata. Foto di tenda.

(Foto davanti alla tenda al campeggio a San Marco di Norcia, quando tornammo dall’hike prima degli altri, perché in un paesino ci avevano lanciato i cani dietro. Foto in uniforme, a mangiare panini sulle scale della basilica di San Benedetto da Norcia).

Non mi è successo niente. Ho imparato tantissimo. Sull’importanza di sentirti parte di una comunità, quando hai paura. Sul non avere paura di dire di avere paura. Sul saper stringere una mano, al momento giusto.

Noi diciamo che il terremoto viene. Gli umbri, che il terremoto passa. Ne sono passati tanti. Li lasciano – fragili – sempre più forti di prima.

Vorrei abbracciare tutti.

Passerà.