Posti che me ne ricordano altri

Il 16 giugno del 2011 cercavo su Wikipedia la parola “Cravatte” e scoprivo che, per sfidare la regola secondo cui un parlamentare non può entrare in Senato senza cravatta, il senatore Speroni ne indossava sempre “le versioni più impensabili: con disegni di maiali, texana di cuoio e così via”. Devo aver trovato questo aneddoto particolarmente buffo, poiché quel giorno ci scrissi un post su Facebook che oggi Facebook mi ha puntualmente riproposto (Mark, ti prego, lasciaci vivere e vai ad allenarti per il duello con Musk). Ho cercato di ricordare perché avessi fatto una ricerca così bizzarra (ma in fondo sono quella che proprio in questi giorni ha letto attentamente la voce “scopone scientifico” per sapere come mai al nord ci giocano in modo diverso) ed è stato lì che ho realizzato come siano passati dodici anni dall’Erasmus e quindi, anche dallo stage a Berlino.

Tra i compiti che avevo, e che non mi sentivo all’altezza di ricoprire, c’era quello di scrivere testi – talvolta lunghissimi – sui vestiti; e io andavo a cercare ovunque le curiosità più impensabili, per riempire quel numero X di battute. Ero costantemente euforica, costantemente malinconica, mi piaceva lavorare ma anche osservare ossessivamente come i numeri si alternassero nelle finestra dell’orario del computer, avvicinandosi pian piano all’ora in cui sarei uscita.

Poi uscivo e spesso andavo a passeggiare in posti a caso, sfruttando il fatto che c’era luce fino alle dieci di sera; è così che è iniziato il mio grande amore per il Treptower Park. Avrei dato qualunque cosa per poter vivere lì vicino, per andare, ogni volta che potevo, a vedere uno scorcio preciso sulla Spree, che assieme alle due torri della Frankfurter Tor (altro posto in cui sognavo di vivere per sempre) è la prima immagine che mi viene in mente quando penso a Berlino. Sono diventata adulta la prima volta in cui ho realizzato che non sentivo più il bisogno di attaccare, ogni anno, la piantina della metropolitana di Berlino sulla mia agenda; oggi sento di esserlo ancora di più perché ho dovuto cercare su Google come si chiamasse la Frankfurter Tor.

Amavo Treptower Park, ci andavo sempre ma ci ho messo secoli a scoprire che proprio in mezzo agli alberi c’era il mausoleo dei soldati sovietici; la prima volta in cui ci sono andata mi prese una commozione indicibile. So che suona retorico, ma mi sembrava davvero di sentire il peso di qualcosa che c’era stato, troppo grande perché la riuscissi ad affrontare. Ho smesso di andarci a lungo, ci sono tornata due anni dopo, in un pomeriggio di pioggia sottile e nebbia fittissima, assieme a Cristina, a parlare neanche ricordo più di cosa; è uno dei ricordi più preziosi che ho della nostra amicizia.

Più in là c’era, non so se ci sia ancora, un luna park abbandonato. Su quel luna park Anita, sul suo blog, aveva scritto un post bellissimo, che ha dato un’impronta fortissima al mio immaginario di quegli anni. Una splendida similitudine tra amori finiti e giostre tra cui crescevano le erbacce, emozioni da montagne russe che ora sono lì sbiadite. Mi piaceva il luna park ma mi inquietava, faticavo a guardare a lungo anche quello.

 

 

In questi giorni sono stata al mare e proprio dietro di noi c’era un albergo, grandissimo, abbandonato. Coi graffiti ai piani alti, con una statua di finto marmo bianco all’ingresso, l’intonaco che si scrosta, l’insegna che ancora si staglia sul cielo azzurro.

C’erano tanti posti chiusi, abbandonati, rimasugli di quelle estati italiane del boom economico che non ho mai vissuto, che ho visto nei film, di cui ho quasi nostalgia, per quella storia – che lo so, suona così retorica – delle parole strane che indicano la nostalgia di epoche in cui non c’eravamo. Non mi hanno inquietata però; ho solo provato tenerezza. Mi hanno ricordato quella volta in cui, alcuni anni fa, mio nonno mi raccontò di quando era tornato al pastificio in cui aveva lavorato tutta la vita.

 

 

Mi hanno ricordato quei paesi del sud dove tutto sembra chiuso, lasciato lì a prendere polvere, pieno di scritte, pareti sbiadite, ortiche ed erbacce che rompono i muretti, che qualcuno un tempo avrà usato come porte da calcio tirando i rigori tra amici. Ho fissato per quattro giorni l’hotel Le nazioni, mi sono mangiata le mani perché non avevo una macchina fotografica decente, ho pensato spesso a chi ci faceva le vacanze, ai bambini che ci hanno conosciuto gli amichetti del mare, agli adolescenti che hanno dato il primo bacio nascosti dietro una colonna, a chi ha festeggiato il compleanno nella sala colazioni, che neanche so se ci fosse.

 

 

Mi ha ricordato, non so bene perché, il luna park che vedemmo a Sidney, con quei colori sfacciati, così retrò, che quasi stonano con la maestosità della baia. A Sidney, l’ultimo giorno, io e Francesco finimmo su un’isoletta della baia che sembra un luna park per hipster, pieno di capannoni industriali abbandonati in cui fare gampling, zeppo di luoghi che sembrano la copertina del primo singolo di un cantante che piace alla gente che piace. C’era una scacchiera con gli scacchi rotti (suggerisco alla pro loco di Terni di inserirne una tra i capannoni dell’Ast per rilanciare il turismo), un campo da tennis ormai chiuso, un campo da basket con la ruggine sui canestri. 

 

 

 

C’erano stanzoni che mi ricordavano la fabbrica riqualificata in cui nel 2011 c’era la sede dell’azienda per cui avevo fatto lo stage; che ormai da tempo si è trasferita in un animo palazzone che guarda la Spree, da uno scorcio non troppo diverso rispetto a quello che mi piaceva tanto a Treptower Park. A lungo questa tensione tra tempi andati e futuro che incombe mi ha dilaniata, io che ero così inesorabilmente nostalgica (neanche so di cosa) da non riuscire ad accettare che qualcuno facesse crescere le erbacce là dove tanti, un tempo, erano stati felici. 

 

 

 

Adesso, per lo più, a dominarmi è il fascino e il pensiero che qualcuno anche da quelle erbacce, possa trarre qualcosa che rende felici: una foto, un ricordo, un’esplorazione tra bambini per fare le prove di coraggio. Un’idea che mi rassicura, e mi fa essere più indulgente con me stessa se faccio prendere polvere a cose cui in passato tenevo tantissimo. O se dimentico come si chiamava la piazza con le torri che vedevo ogni giorno e in cui avrei voluto vivere per sempre; quel che mi è successo dopo, evidentemente, è stato tanto bello da avermelo fatto passare di mente.

 

 

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